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Il sentiero dell’acqua

La possibilità di trovarsi come accade a Lanzorote, nel complesso delle grotte sotterranee ‘Jameos del Agua’, nello stesso istante e nelle vicinanze di animali o creature vissute in un tempo remotissimo, induce a riflettere sull’arbitrarietà e sulla casualità del tempo destinato ad ogni particolare specie vivente. A meno di seguire lo stretto corso del passaggio della storia, si potrebbe pensare che alcuni slittamenti temporali possibili anche lievi, avrebbero potuto condurre a cambiamenti decisivi. Così avremmo potuto assistere agli Spagnoli regnare incontrastati nel secolo appena concluso, oppure gli Ebrei festeggiare e brindare alla fine della guerra insieme ai nazisti, con il risultato di far rivivere tutto ciò che si era estinto o di estinguersi tutto quello che non è ancora.

Le Parche

Convenzionalmente, il linguaggio o l’immaginazione attribuiscono nomi e funzioni a ciò che abbiamo necessità di spiegare e di capire. Ciò accade anche con le figure e le forme che emergono dal nostro inconscio, o a tutto ciò che la nostra mente proietta all’esterno come fatti, persone, accadimenti.
Viene quindi naturale attribuire anche un nome e una giustificazione al caso o al destino, diversa da quella del Caos, un ordine cosmico in grado di assoggettare persino il potere degli dei e di farci supporre che quello che succede corrisponda a un disegno preciso, prestabilito, nella speranza, remota, che tutto non sia già stato visto, già deciso, già accaduto.

Le carte di Mercatore

Il viaggiatore che ha smarrito la rotta e non capisce se si trova troppo avanti, in anticipo rispetto ai suoi compagni, o se invece si è attardato, distratto dal volo di qualche uccello o intento a consumare un pasto frugale, ora si decide a consultare la mappa; ma rischia di commettere un errore decisivo, perché sta tentando di proiettare uno spazio curvo in uno piatto. Lo stesso errore che può commettere un uomo che entra in una stanza poco illuminata e deve indovinare le superfici, per ricavarne a posteriori un disegno, e può utilizzare tutti i suoi sensi, ma non la vista.
Ora, se si tratta di un viaggiatore che si muove all’incirca lungo la linee dei tropici, ogni passo del suo cammino corrisponde a un tratto di strada percorso sulla carta, e a ogni sua incertezza corrisponde una pari incertezza sulla mappa, e questo non aggiunge né toglie nulla alle sue intenzioni, la carta gli restituisce più o meno fedelmente la sua volontà o la sua capacità d’orientamento, sia che desideri perdersi del tutto o invece se vorrà ritrovarsi; al contrario, man mano che ci si posta lungo latitudini più fredde, la mappa diventa via via meno veritiera, aggiungendo brandelli sempre più grandi di terre inesistenti o inventate. E al viaggiatore, che non sa se è destinato a ritrovare prima o dopo i suoi compagni, la distanza che ha coperto nella realtà risulterà molto minore di quella che ha previsto; crederà di essersi molto spostato, invece sarà rimasto fermo all’incirca nello stesso punto.

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Immaginiamo di adottare la definizione di arte come imitazione della Natura; se ora consideriamo quest’ultima nel senso più ampio del termine, cioè che tutto possa essere Natura compresa l’arte stessa, non potremmo non considerare opere di valore artistico inferiore quelle che scelgono l’arte stessa come modello da imitare, non essendo altro che copia di una copia.
Tuttavia questa concezione meccanicistica non tarda a svelarsi come assai fallace e presenta innumerevoli svantaggi, il più importante dei quali è probabilmente quello di non tenere in conto del valore simbolico, forse esoterico di una qualunque espressione artistica, metafora stessa dell’illusione di realtà, che la Natura in tutte le sue possibili forme, ogni giorno sotto il nostro sguardo, a sua volta, rappresenta.

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Nell’esperienza di tutti i giorni si possono incontrare analogie, corrispondenze o rimandi; qualcosa che ricorda più o meno precisamente qualcos’altro, visto di sfuggita o ben noto perché incontrato in un sogno ricorrente. Oppure può capitare che il dettaglio osservato non solo lo ricordi, ma sia esattamente lo stesso oggetto di partenza; allora, o si tratta di nostro errore di misura e questo può mettere in crisi la nostra millenaria superstizione, oppure la nostra percezione è giusta, ma allora è lo scenario dentro il quale è collocato l’oggetto a essere truccato, un’oscura sciarada o una maschera per nascondere qualcos’altro.

Il nastro di Moebius

Sovente può accadere di non sapere con certezza dove siamo. O pensare di saperlo, ma di essere in torto. Oppure ancora, essere certi di trovarsi in un ben preciso luogo ma avere la sensazione di non riconoscerlo. La percezione, se giusta, può essere soltanto relativa allo spazio, non possiamo invece trarre conclusioni univoche né sul tempo né tanto meno sulla dimensione in cui ci troviamo. Come il viaggiatore nella carrozza di un treno che dal finestrino vede un altro vagone in movimento e non sa quale dei due treni si stia muovendo, o come una porta, nell’istante preciso in cui la si attraversa, non è possibile dire se è un ingresso o un’uscita, così quando si resta chiusi dentro è impossibile stabilire dove inizia il dentro e finisce il fuori o quale sia la prigione e chi il prigioniero.

La forma elusiva

La forma si può vedere, toccare e sentire, al contrario della sostanza, inaccessibile ai nostri sensi. Nell’impossibilità di immaginare una qualsiasi entità che le comprenda entrambe – l’immaginazione assurge a un ruolo decisivo nella comprensione della realtà – si tenta di solito di comprendere la sostanza a partire dalla forma. Alla luce dell’esperienza scientifica la forma prende così il nome di materia, incarnando perfettamente il paradigma di potenza e atto. Ma si deve anche considerare l’istante di tempo durante il quale la osserviamo; l’istante prima non esiste ancora, mentre in quello precedente è già sparita. In un perenne gioco di metamorfosi, la forma si è già trasformata in qualcos’altro; quindi nella sua connotazione definitiva e ultima, è il risultato di una sequenza infiniti di istanti, in ciascuno dei quali non esiste.

L’antimeridiano di Greenwich

Viaggiando verso est lungo la linea del parallelo terrestre, in aereo o con qualunque altro mezzo come è noto si anticipa la notte. E questo è tanto più evidente quanto maggiore è la durata del viaggio ed elevata la percorrenza. Allora le ore del tempo percepito si staccano dalle ore reali e vanno ad accumularsi in qualche altro luogo, mentre la nostra vita si svuota di un certo numero di ore che non abbiamo potuto utilizzare e che non potremo in alcun modo recuperare, e saranno semplicemente da quel momento, ore in meno.
Al contrario se si viaggia verso ovest, rincorrendo il giorno, il tempo viene ad essere un guadagno e si possono accumulare così ore a dismisura, che saranno per sempre nostre e nessuno potrà toglierci, a condizione di non tornare mai indietro o fermarsi. Le ore guadagnate potranno poi essere utilizzate tutte insieme e subito,  divorate o consumate poco alla volta secondo il desiderio o la necessità, al pari di tutte le altre ore rimaste.
In tal modo sia con le ore in meno sia con quelle in più potremmo aumentare il piacere o accorciare la nostra sofferenza, oppure l’inverso, ma né le ore perse né quelle guadagnate, dopo averle aggiunte o tolte, si potranno più distinguere dalle ore proficue o da quelle sprecate.

Il paradosso aristotelico

Achille e La Tartaruga, casa editrice di libri in formato cartaceo e digitale, nasce nel 2009 nella città di Torino, con un catalogo principalmente rivolto alla poesia, al teatro e alla narrativa contemporanea.
Molte delle persone che ho incontrato mi hanno chiesto il motivo della scelta di questo nome; i motivi sono più di uno, ma principalmente uno.
Achille e La Tartaruga, nella riproposizione del loro paradosso rappresentano la necessità di ricercare strumenti e misure non ancora ostaggio della visione aristotelica, che ha segnato profondamente, fin dalle sue origini, tutto il pensiero occidentale, e che oggi, in un’epoca come quella attuale di importanti e necessari cambiamenti, mostra segnali di fatale infondatezza.